E' con non poca emozione che inauguro una nuova sezione del mio blog dedicata alla narrativa, ai libri, insomma al piacere di leggere.
Mia intenzione sarebbe di condividere con voi alcune mie letture e, perche' no, ricevere dei vostri suggerimenti e consigli di libri che avete letto e che vi sono piaciuti particolarmente.
Veramente, questa era la mia idea iniziale, ma poi la cosa si e' evoluta.
Dovete, pero', prima sapere che un po' di tempo fa, per caso, conobbi una persona davvero speciale.
Un giorno mi confido' la sua passione per la scrittura che non era mai riuscito a concretizzare, vuoi per il poco tempo a disposizione, vuoi anche un po' per pigrizia.
Lo incitai, allora, a riprendere in mano la penna e così fu.
E quando ho creato il mio blog, il mio pensiero e' andato subito a lui.
"Che ne diresti di pubblicare i tuoi racconti sul mio blog"?
Ero quasi certa che mi avrebbe risposto in modo negativo e, invece, con mia grande sorpresa accetto' immediatamente.
Ed e' con immensa gioia che vi presento "Tango", di Ettore Di Domenico!!
Buona lettura!!
TANGO
Di tutti gli avvenimenti a cui mi è
capitato di assistere in trent’anni di servizio alla Betapac, primaria
industria di involucri per surgelati, il più memorabile è senza dubbio
l’improvvisa follia che colpì il ragionier Fortini, una mattina di
maggio dell’anno 2005.
Tarcisio Fortini era uno scapolo quarantenne
molto riservato, da due anni direttore amministrativo della Betapac e
tutto il personale lo conosceva soprattutto per due cose: la memoria di
ferro e la timidezza esagerata. Era un uomo che pareva doversi scusare
in ogni momento di essere al mondo e infatti si scusava con tutti per
ogni cosa e in ogni circostanza, tanto che c’è chi giura di averlo
sentito scusarsi persino con gli oggetti, quando gli accadeva di urtarli
accidentalmente.
D’altra parte, quante cose si sono dette dopo quella mattina?
Ognuno deve trovare per forza una spiegazione dei fatti. Ma certi fatti non si spiegano, semplicemente accadono.
Ricordo
che Fortini arrivava in ufficio piuttosto presto, prendeva un autobus
di quella linea Magenta-Milano che, scorrendo (si fa per dire) tra
fabbriche di lampadari, cascine, depositi di spedizionieri e trattorie,
ogni mattina scarica nelle banche e negli uffici milanesi migliaia di
pendolari, di quelli che “vuoi mettere la soddisfazione di arrivare a
casa la sera e vedere le stagioni che cambiano e la campagna e farsi un
bel giro in bicicletta?”
La passione di Tarcisio Fortini invece non era né la bicicletta, né la campagna. La sua passione era il ballo.
Salsa, merengue, mambo, samba, e anche valzer, polka, mazurka, paso doble. Fortini ballava tutto, e straordinariamente bene.
Era
piccolo, nero e ossuto, ma in pista diventava una forza della natura,
dovevi proprio vederlo, gli occhi si accendevano, le spalle curve si
raddrizzavano e i piedi sembrava non toccassero mai terra.
Qualche
anno prima, per accontentare una fidanzata si era iscritto ad un corso
di merengue, poi ci aveva preso gusto, tanto che della fidanzata si
erano perse le tracce, mentre l’amore per il ballo non lo aveva mollato
più.
Aveva iniziato a fare gare, prima piccole competizioni per dilettanti, poi sempre più impegnative.
Ma
devo andare con ordine, altrimenti non si capisce. Perché all’inizio
tutte queste cose del Fortini ancora non le sapevamo e le abbiamo
apprese solo in seguito.
Lui parlava poco e raramente, e per lo più se ne stava curvo sui libri contabili e concentrato nella partita doppia.
Eppure qualcosa lo stava scavando dentro, lentamente, goccia dopo goccia.
C’era
un ballo in particolare che da un po’ di tempo gli aveva catturato
l’anima e che avrebbe voluto ballare sempre. Un ballo sensuale, morbido e
grintoso, scattante e controllato, scandito da un ritmo binario, due
passi lenti e due veloci, intriso di ebbrezza e di languore, di armonia e
di contrasti. Il tango, naturalmente.
Fortini il tango lo avrebbe
voluto ballare giorno e notte, per lui era una febbre, un confuso
ricordo, un sogno stupendo che gli toglieva il respiro, era un dolore
che lo opprimeva e non passava, una luce innaturale che non dava tregua.
Il tango gli entrò dentro come una malattia, un delirio, un morbo insidioso che cambiò completamente la sua vita.
Iniziò
a vestirsi di nero, a profumarsi e a impomatarsi i capelli, si fece
crescere i baffi e sviluppò una passione maniacale per le scarpe, non
solo quelle bicolori di vernice, che usava per ballare, ma in generale
tutte le scarpe, che diventarono la prima cosa su cui concentrava
l’attenzione quando una persona entrava nel suo raggio visivo.
Giorno
dopo giorno la sua camminata diventò più distesa ed elastica, lo
sguardo si accese e poco alla volta Tarcisio Fortini acquistò l’aria
inquieta di chi si è perso e ritrovato.
I corridoi della Betapac
erano lunghi e illuminati da una luce stanca e livida. Cosa potevi
pensare quanto ti imbattevi in quell’ometto allucinato, intento a
provare di soppiatto un ocho adelante o un enrosque?
A me capitò persino di vederlo cimentarsi in una calesita davanti alla fotocopiatrice. Lui se ne accorse e mi sorrise.
Ormai era chiaro a tutti che qualcosa doveva essere successo e ognuno aveva la sua idea.
“Dev’essere proprio innamorato” commentò Rosalba dell’ufficio spedizioni.
“Macchè,
quello è un dritto! Proprio adesso che il gioco si fa duro, il furbetto
si imbosca e a noi tocca pure coprirlo!” sentenziò Verdolini
dell’ufficio acquisti, con l’aria di chi aveva già sopportato
abbastanza.
“Gli parlerò – si ripromise il direttore del personale –
evidentemente è stressato, insomma non può continuare ad accentrare
tutto il lavoro, deve dare più spazio ai suoi collaboratori, altrimenti
fa male a se stesso e agli altri, guarda come si è ridotto”.
“E’
pazzo e deve levarsi dalle palle”, chiuse il discorso con l’abituale
amabilità il ragionier Rubagotti, titolare della Betapac.
Gli eventi precipitarono poche settimane dopo, quando arrivarono gli inglesi.
Nel
maggio 2005 Rubagotti decise di vendere l’azienda e dell’affare iniziò
ad interessarsi un fondo di private equity con sede a Londra.
Una
mezza dozzina di giovanotti e giovanotte con la pelle chiara e l’abito
scuro si alternarono nei nostri uffici, trascorrendo ore e ore a parlare
con Rubagotti e con Fortini, a fotocopiare documenti, sorridere,
sgranocchiare patatine, scarabocchiare appunti sui moleskine e
armeggiare con il Blackberry.
Fortini era presente a quasi tutte le
riunioni, Rubagotti lo marcava stretto e gli faceva scaricare nella
“data room” allestita al primo piano quintali di fogli di carta pieni di
tabelle, indici, statistiche, contratti, tutto ciò che serviva a
definire meglio il prezzo con cui la Betapac sarebbe passata di mano.
Fatale fu la macchinetta del caffè.
Una
mattina, Fortini aveva appena finito di stampare le ultime previsioni
del fatturato che Rubagotti gli aveva fatto correggere già quattro volte
e, prima di affrontare nuovamente quel vecchio insopportabile volle
prendersi una pausa.
Aveva appoggiato alla finestra una cartelletta
nera, che conteneva la sua ultima fatica e aveva inserito nella macchina
la manciata di monetine che serviva a scaricare nel bicchierino un
caffè orribile, cui tuttavia nessuno sapeva rinunciare. La macchina si
inceppò e cominciò ad emettere un suono spaventoso, come di mostro
ferito.
Fortini la guardò da tutte le parti senza saper cosa fare,
mentre dagli uffici vicini iniziò il traffico vociante di chi chiedeva
cosa fosse successo.
Qualcuno ripeteva che ormai era ora di cambiare
quella ferraglia, altri passarono alle vie di fatto e cominciarono a
tirar calci e cazzotti che fecero tremare la lamiera, senza però
ottenere il risultato sperato: il gigante era ancora vivo e più ululante
che mai.
Il caso volle che proprio allora scendesse dall’ascensore
un ragazzone rossiccio, mai visto prima, alto quasi due metri, le mani
come badili e i vestiti appiccicati addosso per l’enorme stazza da
ricoprire.
Appena si rese conto della situazione, si avvicinò con la
sua faccia buona di figlio d’Irlanda, appoggiò la sua cartelletta nera
alla finestra, abbracciò e sollevò il mostro come Ercole fece con il
leone di Nemea, finché si udì uno schianto, seguito dal rumore delle
monetine che finalmente avevano trovato la via giusta nei visceri della
bestia; infine ci furono spruzzi di caffè misti allo scricchiolio della
plastica del bicchierino triturato dai denti della belva umiliata e
offesa.
Fortini guardò l’orologio e capì di essere in ritardo.
Ringraziò tutti, salutò e si scusò con tutti, prese la cartelletta nera
appoggiata alla finestra e si avviò verso l’ufficio di Rubagotti.
Percorse
il lungo corridoio del secondo piano, ma questa volta non provò ad
accennare alcuna movenza del suo ballo preferito, piuttosto volle aprire
la cartelletta per riguardare al volo qualche numero. Ne estrasse un
documento di parecchie pagine, che evidentemente non era il suo. Stava
già per tornare sui suoi passi quando gli capitò di leggere il titolo;
si fermò, prese fiato, si appoggiò ben saldo alla parete e lo sfogliò da
cima a fondo più in fretta possibile, sentendosi colpevole.
Il
documento era del gigante buono dai capelli rossi, con il quale aveva
scambiato la cartelletta, e che non veniva da Belfast ma da Treviso ed
era uno dei tanti consulenti, advisor, auditor e avvocati utilizzati
nella cessione di una società.
Rubagotti, che normalmente non poteva
sopportare quella genia, nel momento in cui si apprestava ad uscire di
scena con un bel pacco di milioni, aveva voluto seguire rigorosamente il
rito prescritto dall’ortodossia finanziaria.
C’era una parola che
ricorreva in tutte le pagine, più volte in ogni pagina di quel documento
elaborato in Power Point, che è il software che sta al consulente come
il bisturi sta al chirurgo e la zappa al contadino. Questa parola era:
“sinergia”.
La Betapac avrebbe dovuto essere incorporata in una
società del Nord-Est nostra concorrente e grazie a questa operazione si
sarebbero realizzate interessanti e redditizie “sinergie”.
Adesso ho
imparato anch’io il significato di questa parola, capace di far sognare
gli imprenditori, guadagnare i consulenti e imbestialire i dipendenti.
Io
ad esempio, insieme a tutte le mie colleghe della fatturazione, ero una
sinergia, perché non aveva senso tenere due uffici identici, uno a
Treviso e un altro a Milano.Via tutto, se ne fa uno solo bello grande,
si mandano via le persone, si fa il “re-engineering dei processi”,
eliminando gli sprechi e togliendo i servizi inutili, poi si rinnovano i
sistemi informativi, si cambiano i contratti e si decide di cedere
qualche attività in “outsourcing”.
Alla fine si fanno due conti e si
scopre che tutta questa cosa è costata un sacco di soldi. Così si
aumentano i prezzi e si diminuiscono ulteriormente i servizi ai clienti,
tanto si è eliminato un concorrente, no? Se poi succede che i clienti
non ci stanno e iniziano a fare acquisti in Cina, allora è proprio crisi
di mercato e la ruota inizia un altro giro.
“Fortini, ma che fa lì impalato? Venga qui che la stiamo aspettando!”
Rubagotti era comparso all’imbocco del corridoio, visibilmente spazientito, e il suo tono non ammetteva repliche.
Fortini
lo seguì nel suo ufficio senza pensare, con l’istintivo riflesso
condizionato della pecorella distratta che ha appena ricevuto una
randellata sul groppone.
Appena entrato si trovò al cospetto di uno
spilungone abbronzato, elegante, dai denti troppo bianchi e la stretta
di mano a tenaglia, che dava l’impressione di essere il capo di tutta
quella tribù che da qualche tempo si stava affaccendando attorno alla
Betapac.
“Il signor Goldwater avrebbe piacere, prima di tornare a
Londra, di dare un’occhiata a quei dati che le ho chiesto di preparare –
gli stava dicendo Rubagotti parlandogli da sopra la spalla sinistra e
sputacchiandogli nell’ orecchio – ho chiamato anche Silvana per vedere i
dati riepilogativi dell’ultimo trimestre”.
Silvana sono io e in
effetti il ragionier Rubagotti mi aveva telefonato qualche minuto prima :
“Sia brava, venga qui con i tabulati, perché quell’impiastro là non so
mica cosa è riuscito a combinare e io qualche numero lo devo far
vedere”.
Fu una questione di secondi, un sincronismo perfetto, che accese la follia di Fortini e ci salvò tutti quanti.
Il
povero Tarcisio stava già boccheggiando, incapace di spiegare
l’equivoco e si limitava ad indicare la cartelletta nera senza riuscire a
mettere insieme due o tre sillabe di seguito che potessero formare una
parola di senso compiuto.
D’un tratto da una borsa abbandonata in un
angolo della stanza risuonò un cellulare. Lo spilungone abbronzato tese
l’orecchio, cercò la borsa, dovette aprila, si mise a frugare prima in
uno scomparto, poi in un altro, tirò fuori un fascicolo, raccolse
l’agenda che si era infilata in mezzo ed era caduta per terra, la rimise
a posto, ricominciò a cercare quel maledetto cellulare che non si
trovava e continuava a suonare e a suonare sempre più forte.
Ma che diavolo di suoneria era? Che razza di musica era quella? A Fortini si illuminarono gli occhi…
Era proprio un tango!
Lo
spilungone abbronzato con il tango non c’entrava proprio nulla, era
come i cavoli a merenda, la marmellata sulla pizza, il buon senso nei
filosofi e l’onestà nei politici. Eppure quello era proprio un tango,
malinconico, caldo e struggente, un vero “pensiero triste che si balla”,
secondo la famosa citazione.
E Fortini, più disperato che triste, infine ballò.
Successe
che mentre era ancora in corso la caccia al cellulare tra imbarazzi e
imprecazioni soffocate, io bussai ed entrai nella stanza portando tra le
braccia i tabulati fitti di numeri e di percentuali.
Fortini con due
balzi mi fu addosso facendomi rovesciare tutti i fogli, mi cinse la
vita e mi spinse la testa indietro, obbligandomi ad inarcare la schiena e
a seguire i suoi passi indiavolati.
Qualche secondo ancora e irruppe
gridando nell’ufficio il gigante dai capelli rossi. Aveva il volto
paonazzo e la camicia tutta macchiata di caffè. Senza far caso a ciò che
stava succedendo, individuò subito la cartelletta nera, aprì,
controllò, emise un sospiro di sollievo e poi si fermò. Si guardò
intorno ed ebbe la netta sensazione di essere entrato in quel vecchio
film dei Monty Python che piaceva tanto a suo papà.
Rubagotti ormai
cianotico si stava strappando i capelli. Lo spilungone biondo aveva
spento il cellulare e stava sorridendo sardonico. Io e Fortini eravamo
finiti gambe all’aria, dopo aver urtato una sedia e aver trascinato a
terra con effetto domino la lampada a stelo e l’appendiabiti. L’ufficio
si era riempito di una piccola folla di dipendenti preoccupati, curiosi e
stupefatti.
Se ne andarono tutti; gli inglesi dico, sparirono con la stessa rapidità con cui erano venuti..
Mr.
Goldwater si reputò un manager molto abile e fortunato: ci voleva
proprio la sua presenza per sbrogliare i casi più complessi e a lui
bastava un semplice colpo d’occhio per capire ciò che altri non
coglievano nemmeno in ore e ore di duro lavoro. Gli italiani lo stavano
prendendo in giro e quel Rubagotti era una caricatura di filibustiere.
Che spudorato! Rubare i documenti e poi far organizzare quella
messinscena da quel deficiente! Era un minchione, che si era messo fuori
gioco da solo e adesso poteva andare a quel paese, lui e la sua
ridicola azienda.
Fortini fu licenziato e rinacque a nuova vita. Aprì una scuola di ballo, si sposò, ebbe una bambina e la chiamò Viola.
Per
qualche tempo ci invitò alle gare e alle serate a cui partecipava. Poi
partì con la famiglia per il Sud America e non se n’è più saputo nulla.
Due
anni fa Rubagotti è finalmente riuscito a vendere la sua azienda. A
comprare è stato un nostro fornitore di Bergamo, un brav’uomo che quando
parla si capisce ancora meno degli inglesi, ma fortunatamente non
conosce il significato della parola “sinergia” e per ora sembra non
avere alcuna intenzione di pagare qualche consulente che glielo spieghi.
Il
nuovo direttore amministrativo è simpatico e competente, ma parla
sempre di calcio e, lo vuoi sapere? A me Fortini manca da morire.
I corridoi sono un po’ meno bui adesso, eppure sembrano così vuoti.
La
stanza che occupava Rubagotti è diventata una sala riunioni. Raramente
mi ritrovo lì, ma ogni volta mi capita di distrarmi e di ripensare a
quella mattina di maggio, quando Tarcisio mi prese le mani e per un
attimo mi fece volare. Chissà dov’è adesso…
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http://countryealtroancora.blogspot.com/2010/02/tango_23.html
1 commento:
Salve, mi chiamo Letizia.
Girando un pò x la rete mi sono imbattuta in questo blog....CHE BELLO!!!!!
Anch'io ne ho uno www.pappperlandia.blogspot.com
Se poi mi dai il permesso metto il tuo tra quelli che seguo...
Ti aspetto!
Lety
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