15 gennaio
Ho freddo, mi pizzicano le guance e
le orecchie. Tremo e cammino rigido, il collo insaccato tra le spalle. E’ buio
e devo stare attento a non scivolare su quel po’ di neve rimasta, che è
ghiacciata e scricchiola sotto i piedi.
Katia deve essere già arrivata, lei
è sempre così puntuale. Anche questa volta dovrà aspettarmi.
Eppure non è stato facile
convincerla. Aveva nuovamente cambiato idea e non voleva più venire. Continuava
a trovare buone ragioni per rimandare. Rivedo il tremito del suo labbro e sento
la sua paura infiltrarsi nelle ossa, occhi spalancati e voce che non sale. Affretto
il passo.
Ci sono queste notizie sul mostro che
potrebbe tornare a colpire. C’è poco da scherzare. mi aveva detto fissandomi. Aveva
spento una mia risata cretina e io avevo dovuto dirle scusa, hai ragione.
Una donna viene uccisa senza alcun
apparente motivo più o meno ogni sette mesi, l’ultima è stata lo scorso giugno,
a trenta chilometri da qui. I giornali locali hanno parlato di un serial killer
freddo, che non si abbandona a brutalità gratuite, strani riti o atti di
feticismo. Si limita a uccidere con regolarità ogni sette mesi, con armi differenti, ma sempre con sette colpi.
Vabbé se proprio ci tieni,
facciamola questa pazzia, vediamoci a mezzanotte per queste foto del cavolo. Tu
non sei normale. Tu vuoi che prima o poi succeda qualcosa, che ci scoprano, vuoi
lasciarci la testa. Ma io non ti seguo all’inferno. Stai bene attento, Michele
perché c’è una riga da non superare e tu ci sei pericolosamente vicino. Se la
superi, ti ammazzo con le mie mani. Non mi rovinerò per te.
Bastava lasciarla parlare, piangere
qualche volta, magari urlare. Non è facile liberarsi delle pesanti, eleganti
catene di architetto e di mamma in carriera e sapevo bene che per le febbrili
sorsate di libertà che si concedeva con me, pagava un prezzo che potevo
soltanto sfiorare con l’immaginazione.
Deve essere venerdì, mi aveva
detto. Giorgio parte per un convegno e i bambini saranno da mia sorella. Di
neve nel parco ce ne sarà ancora in abbondanza. Venerdì va benissimo, le ho
risposto. Baciandomi, mi aveva colpito il petto con affetto e complicità.
L’idea delle foto era stata sua. Aveva
visto le immagini che avevo scattato tre anni fa, la fontana carica di neve, la
luce gialla del lampione, un alone di nebbia, il profilo dei tetti imbiancati e
un denso, avvolgente silenzio. Sei magico, sei riuscito a fotografare il
silenzio, mi devi insegnare.
Stanotte ci siamo entrati, nel
silenzio. Lo abbiamo profanato con l’angoscia che ci morde lo stomaco e con tutti
i pensieri che ci scoppiano in testa. Sento che il tumulto del nostro cuore
infrange la pace di questo luogo molto
più dei nostri passi soffocati dalla neve.
Il cielo è stellato, ma noi ci
portiamo dentro questo freddo viscido e osceno che ci invade e ci penetra in
ogni fibra del corpo.
La vedo. E’ vicino alla panchina, a
battere i denti con le braccia conserte. Mi devo preparare a una delle sue
sfuriate, la normale razione di carta vetrata che pago per assaggiare il miele
dei suoi baci e il burro delle sue curve.
Anche lei mi ha visto, mi viene
incontro senza un cenno di saluto. Cammina a testa bassa, mentre piccoli scatti
nervosi le scuotono le spalle.
E’ tutto pronto, ci siamo noi due,
la neve, il buio e la luna. In fondo, ho ritardato di soli sette minuti dopo la
mezzanotte.
La lascio avvicinare fino a quando
arriva a tre passi da me, poi mi decido a sparare.
Il primo colpo la colpisce
all’addome, poi scarico altri due colpi su quella faccia che per un istante mi
guarda pallida e incredula. Tre colpi ancora per sfogare la tensione e vederla
cadere bocconi sulla neve, ormai puro corpo inanimato che non mi appartiene. Mi
avvicino e le sparo ancora una volta mirando alla testa, calmo, per mettere un
punto definitivo a questa storia.
22 gennaio
– mattino
Ho le mani macchiate.
Questo inchiostro nero è difficile
da lavare. Ma non so rinunciare al piacere di ascoltare il pennino che graffia
la carta morbida. Non conosco altro modo di scrivere.
Mi preparo un caffè, mi rilasso e
mi preparo a rileggere.
“ Signor Procuratore,
lei mi fa pena. L’ho vista ieri
sera al telegiornale, ho ascoltato i suoi appelli alla cittadinanza, ho notato
lo studiato riserbo con il quale respinge l’assalto dei cronisti, la sicurezza
che ostenta verso le autorità.
Lei sfoggia una sicumera buona per
confondere le idee dei semplici, ma in realtà non sa letteralmente dove
sbattere la testa. Lei inizia ad avere paura.
Io so riconoscere la paura. Io convivo
da anni con la paura, non posso farne a meno, essa fa parte di me e se alzo la
testa e la cerco, mi sembra di vedermi allo specchio.
Quando la osservo, affondato in uno
stuolo di microfoni, sono in grado di riconoscere la stessa paura disperata di
chi brancola nel buio e cerca affannosamente una via di uscita.
Sette omicidi ogni sette mesi fanno
quattro anni signor Procuratore.
Durante tutto questo tempo i
giornali hanno riempito pagine di cronache, interviste e fotografie. I
telegiornali e i talk show hanno ospitato criminologi, magistrati in pensione e
professionisti della chiacchiera.
Da una settimana negli uffici e nei
bar non si parla che del delitto della donna nel parco. Soubrette, calciatori e
“reality show” sono passati per qualche giorno in secondo piano.
Lei solo continua a tacere, ad
esibire una improbabile laboriosità, a invitare alla pazienza e al rispetto dei
tempi della giustizia. «Non stiamo cercando un colpevole da dare in pasto
all’opinione pubblica, stiamo cercando il
colpevole e questa volta siamo sulla buona strada, non fatemi dire altro, vi
prego».
Il colpevole
di cosa, signor magistrato? Dell’ultimo delitto, del primo, di tutti e sette?
Lei ha interrogato centinaia di persone, ne ha
sospettate a decine, qualcuna l’ha anche arrestata, poi rilasciata e arrestata
nuovamente. E sta ancora inseguendo
l’idea di dare un volto ad un misterioso assassino seriale, prevedibile parto
della psicosi collettiva che lei ha finora assecondato con cocciuta mancanza di
immaginazione.
Nella sua mente ordinata non c’è
spazio per il caso, per l’improvvisazione, per quello scarto del destino,
quell’attimo che può cambiare il corso di una vita, e anche distruggerla.
La cronometrica regolarità degli
omicidi e il numero di colpi inflitto alle vittime sono sufficienti a
convincerla dell’esistenza di un disegno prestabilito, di un piano che lei sta
cercando di decifrare, senza essere finora riuscito a mettere insieme nemmeno
due tessere di questo complicato puzzle.
Forse lei dovrebbe studiare meno le
carte processuali e dedicare più tempo al cuore degli uomini. Comprenderebbe
con quanta facilità il suo determinismo vuoto ed astratto sia destinato ad
essere sconfitto dai capricci del destino e soprattutto dall’esercizio
dell’umana libertà.
Chi le scrive è un assassino,
signor magistrato. Ho ucciso con premeditazione e senza piani prestabiliti,
senza metodo, né ordine e in piena coscienza. Libertà e casualità si sono presi
sempre il maggiore spazio della mia vita.
E’ per amore di libertà che ho
ucciso ed è da uomo libero che ora confesso il mio crimine, consapevole che
trascorrerò in carcere il resto dei miei giorni. Infatti oggi desidero
unicamente la liberazione dalla mia colpa.
Ci sono situazioni che creano
catene e soffocano la tua libertà senza che tu te ne renda nemmeno conto.
Tu stesso puoi essere il principale
artefice della tua schiavitù, e allora il problema diventa liberarti da te
stesso. Se la sorte ti è propizia, puoi riuscirci. Ma questa è la prova più
ardua, perché non c’è muro più difficile da sfondare di quello dei propri
limiti e delle proprie debolezze.
A me è sempre riuscito penoso
abbandonare una donna. Gli amori finiscono, ma i legami continuano e reciderli
è faticoso, deprimente. Donne che prima ti ignorano per principio e ti
rifiutano per abitudine, poi ti accolgono per gioco e per noia, ti cercano per
puntiglio e curiosità, ti imbrigliano nella loro rete riuscendo a infliggerti
ogni possibile senso di colpa, finché ti accorgi di essere invischiato in una
palude dove il pianto e il riso, l’odio e l’amore, la felicità e l’infelicità
si mescolano in un’unica fanghiglia che ricopre il tuo corpo e ti fa
sprofondare ogni giorno un po’ più in basso.
Signor Procuratore, confesso che io
ho ucciso. Non sette volte, ma più di una. E quando si è iniziato a parlare di
mostro, di maniaco, di serial killer, ho gioito di questa fortuna insperata, ho
ringraziato la sorte ancora una volta amica e ho iniziato ad aver fede
nell’onnipotenza dei miei mezzi. Niente ti rende più invincibile della salvezza
raggiunta quando stai per perderti irreparabilmente.
Ma ora basta, il giochino sta
diventando ripetitivo. Vede, se io fossi quel serial killer che lei sta
inutilmente cercando da anni, adesso io mi divertirei a giocare al gatto e al
topo. Invece la coazione a ripetere lo stesso schema mi fa orrore, perché nega
l’unica cosa che fondamentalmente rende lei e me diversi dal gatto e dal topo. Questa cosa si chiama libero arbitrio.
Lei non ha capito nulla, ma ha
avuto fortuna. Anche io ho avuto fortuna, ma ciò non mi ha reso felice.
In fede, Michele Zanetti.”
22 gennaio
– pomeriggio
C’è un bar tabaccheria a tre
isolati dalla villetta dove abito. Da quando mi è morto il cane, vivo solo. Mi
piace camminare con scarpe comode, sentirmi i piedi leggeri, il passo sciolto.
Ho sigillato la lettera, ho scritto
l’indirizzo in bella calligrafia, facendo attenzione a non sbavare con
l’inchiostro.
Non fumo, non gioco al
superenalotto, detesto le brioches. In quel bar ci sarò entrato forse cinque
volte. Il rischio che il barista, tipo ciarliero per necessità e dovere, mi
attacchi un bottone è piuttosto remoto. Devo solo acquistare un francobollo da
pochi spiccioli, infilare la busta nella buca delle lettere e poi attendere
semplicemente gli eventi.
Non ha il resto. L’uomo
spelacchiato e panciuto dietro il bancone mi studia come una nuova specie di
insetto. Attende immobile una mia reazione, tipo “non fa niente grazie, tornerò
un’altra volta”. Invece anch’io lo fisso
muto, dritto negli occhialini tondi.
Dopo una lunga pausa, si limita ad
alzare il mento in direzione di una bionda molliccia che si avvicina alle mie
spalle.
“Fa’ un salto da Beppe”, le dice
porgendole la banconota e quella esce trascinando i piedi.
Mi siedo. Non so dove si trovi
questo Beppe, ma se anche si trattasse della macelleria di fronte, con
quell’indolenza che si ritrova quella ciabattona ci vorrà almeno qualche
minuto.
Alla mia destra un gruppo di
pensionati e alcuni vitelloni attempati giocano a carte mescolando borbottii,
esclamazioni e confusi suoni gutturali; una donna tiene in braccio un bambino
pallido, che indossa un berretto di lana calato su due occhi enormi; il corpulento
barista versa un bianchino a un vecchietto curvo e grigio dentro un vestito
stazzonato; in fondo al locale si sente la macchia nera di alcuni adolescenti
che schiamazzano attorno ad un videogame.
Alla radio gli ascoltatori
intervengono per scegliere una canzone e dedicarla a chi meglio credono.
Proprio ora è in linea una certa Daniela che fa la dentista e vorrebbe dedicare
una canzone al suo personal trainer. La interrompono. Edizione straordinaria
del notiziario.
Hanno preso il serial killer. Il
procuratore ha interrotto il suo tradizionale riserbo. Ora parla travolgendo
argini e dighe, una drammatica esondazione. Prove schiaccianti. Fatto il test
del DNA. L’uomo è stato presente con evidenza scien-ti-fi-ca sulla scena del
crimine in tutti e sette gli omicidi. E’
stata trovata una mappa con i luoghi cerchiati di rosso. E’ stata rinvenuta
l’arma del delitto in almeno metà dei casi. In quanto agli altri, provare la
colpevolezza del mostro è solo questione di tempo, con la moderna tecnologia si
fanno miracoli. Stiamo raccogliendo alcune interessanti testimonianze. Una
confessione? Non la escludo, anzi ci sono ottime probabilità.
23 gennaio
– mattino
Oggi c’è un bel cielo azzurro,
l’aria è già primaverile. Alcune mamme, nonne e tate si spingono fino ai
margini del parco con carrozzine e passeggini.
L’area centrale è ancora off limits, circondata da transenne e
sorvegliata dalla polizia. Dopo la notizia di ieri è ripreso un discreto
traffico di volanti, ispettori, tecnici, giornalisti. C’è il rischio che
avvicinandomi troppo mi mandino via.
Ma nessuno bada a me, sicché
continuo ad avanzare, strizzando gli occhi. Dopo la notte insonne, la luce del
sole mi intorpidisce e mi dà fastidio. Cammino a testa bassa, le mani strette
nelle tasche del cappotto.
Giungo fino al limite delle
transenne, nel punto in cui queste fanno angolo davanti ad un lampione con
annesso cestino. Guardo oltre, verso il punto in cui si vede più movimento e
dal quale proviene la maggior parte delle voci,
proprio dove Katia mi aspettava.
Un appuntato dei carabinieri mi
viene incontro con aria interrogativa. Io lo punto ed estraggo lentamente le
mani dalla tasca.
La lettera, sulla quale ho incollato il
francobollo, è tutta spiegazzata e sbaffata. Cerco di riassettarla alla bella e
meglio e la infilo nel cestino, proprio sotto lo sguardo sospettoso del giovane
militare, che tuttavia non dice una parola.
Il caso ha sempre avuto grande
spazio nella mia vita. Mi sono sempre sentito libero di percorrere tutte le
infinite possibilità che il destino ci riserva e ne ho già percorse un buon
numero.
Le piccole concrete verità di cui è popolata
la nostra esistenza sono spesso così semplici che l’intelletto umano non riesce
più a comprenderle.
Oltre quelle transenne la scienza e
la moderna tecnologia setacciano microscopiche particelle invisibili ad occhio
nudo per ricavarne inoppugnabili dimostrazioni di umane elucubrazioni.
Ma poiché non esiste scienza senza
possibilità di confutazione, le stesse teorie e dimostrazioni diventano cibo e
nutrimento di teorie e dimostrazioni opposte, in una continua e impossibile
rincorsa verso la perfezione. I colpevoli di oggi saranno probabilmente gli
innocenti e forse le vittime di domani.
Ma chi volesse frugare in questo
cestino di rifiuti, proprio qui al confine del territorio su cui si stanno
accanendo la ricerca e la scienza, riuscirebbe a vedere anche di notte, alla
fioca luce di un lampione, un frammento di verità che non necessita di
ulteriori spiegazioni.
Restituisco questa verità, fatta ancora di carne, di sangue,
di paure e di tormenti, certamente non di chip o di pixel, al vento che oggi mi
ha respinto, quando ormai ero pronto ad approdare nell’accogliente porto della
colpa e del castigo.
Presto il vento cambierà direzione,
basta avere pazienza e tenere la rotta, perché a portare il navigante
finalmente a casa non è il gioco dei venti e delle correnti, né la sua perizia
o il suo coraggio, ma la stanchezza e la voglia di pace, nonostante tutto.
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